Ma quando la carriera di Elaine aveva cominciato a
decollare, era stato soprattutto grazie alla sua fame, in apparenza
insaziabile, di mettere a nudo se stessa e, inevitabilmente, chi le stava
vicino. Tutto questo aveva alimentato la reputazione di Elaine – e lei ormai
era molto nota – di eccentricità e solipsismo. Alcune delle sue rivelazioni
avevano iniziato a condizionare il loro matrimonio, perché per Charlie erano
motivo di tensione e vergogna.
* * *
Non aveva bisogno di fingere di essere diverso dalla
persona che Elaine stava ritraendo e, date quelle premesse, ogni successiva
dimostrazione di sensibilità, intelligenza e competenza genitoriale sarebbe
senz’altro apparsa stupefacente.
“Invece” disse “Qualche differenza c’è. Nel mio caso non esiste
un’altra faccia della medaglia. Per esempio, non so… Ho davvero mandato
affanculo sua sorella al battesimo di sua figlia. In chiesa. O forse l’altra
faccia della medaglia è che di solito non mi comportavo così. È stato un
episodio isolato”.
in molti casi siamo noi a far promesse senza mantenerle mai se non per
calcolo,
il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile, la posta in gioco è
massima,
l'imperativo è vincere e non far partecipare nessun altro,
nella
logica del gioco la sola regola è esser scaltro: niente scrupoli o rispetto
verso i propri simili perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono
irraggiungibili.
Sono tanti arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti, sono
replicanti,
sono tutti identici, guardali, stanno dietro a machere e non li puoi
distinguere.
Come lucertole si arrampicano, e se poi perdon la coda la
ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno, spendono, spandono
e sono quel che hanno.
Sono intorno a me ma non parlano con me. Sono come me ma si sentono meglio.
Sono intorno a me ma non parlano con me.
Sono come me ma si sentono meglio.
E come le supposte abitano in blisters
full-optional,
con cani oltre i 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,
vivon col timore di poter sembrare poveri, quel che hanno ostentano e tutto il
resto invidiano,
poi lo comprano, in costante escalation col vicino
costruiscono:
parton dal pratino e vanno fino in cielo, han più parabole sul
tetto che S.Marco nel Vangelo e
sono quelli che di sabato lavano automobili che
alla sera sfrecciano tra l'asfalto e i pargoli,
medi come i ceti cui
appartengono, terra-terra come i missili cui assomigliano.
Tiratissimi,
s'infarinano, s'alcolizzano e poi s'impastano su un albero, boom!
Nasi bianchi
come Fruit of the Loom che diventano più rossi d'un livello di Doom.
Sono intorno a me ma non parlano con me...
Sono come me ma si sentono meglio...
Sono intorno a me ma non parlano con me...
Sono come me ma si sentono meglio...
Ognun per sé, Dio per sé, mani che si
stringono tra i banchi delle chiese alla domenica,
mani ipocrite, mani che fan
cose che non si raccontano altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si
scandalizzano, mani che poi firman petizioni per lo sgombero, mani lisce come
olio di ricino,
mani che brandiscon manganelli, che farciscono gioielli, che si
alzano alle spalle dei fratelli.
Quelli che la notte non si può girare più,
quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan la tv,
che fanno i boss, che
compran Class, che son sofisticati da chiamare i NAS,
incubi di plastica che
vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara ma l'unica che accendono
è quella che dà
loro l'elemosina ogni sera,
quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro
luna nera.
Sono intorno a me ma non parlano con me. Sono come me ma si sentono meglio.
Sono intorno a me ma non parlano con me.
Sono come me ma si sentono meglio.
La casa di viale Tibaldi al 4 mi si presentò con una facciata grigia e anonima, tre piani incastrati tra palazzi molto più alti e altrettanto incolori, ma dalla fessura che separava i due battenti del portone di legno e ferro battuto, incollando l'occhio potevo scorgere un piccolo parco nascosto nella corte interna.
Meccanicamente spazzolai con le mani l'abito buono cercando, senza riuscirvi, di scacciare la sensazione di inadeguatezza che mi stava tormentando. Avevo già lavorato per gente col portafoglio rigonfio, ma quello che, secondo Vale e il mio Socio, avrebbe dovuto essere il mio prossimo cliente, mi faceva sentire un po' come la piccola fiammiferaia in attesa dell'elemosina. Fosse stato per me, mi sarei tenuto alla larga da quel padrone delle ferriere, ma nessuno si era degnato di chiedere la mia opinione.
Sono stato invitato - con grande piacere - a partecipare a questo evento: BookCity Milano 2014. Qui sotto potete trovare qualche informazione a riguardo.
BookCity Milano 2014
Parole su una città: nuovi autori per Milano. Con Sanja Lucic, Giuseppe
Norbig, Francesco Bittasi
L’ironia e l’ideologia nella
comunicazione e nelle relazioni fra chi vive e lavora a Milano.
La difficoltà nel raccontare questa città, con storie individuali che paiono
traiettorie con poco domani.
La precarietà, i modi per superarla e/o vendicarsene, il nascere comunque di
nuovi affetti qui e ora. Con quali e nuove parole è possibile narrare
ancora Milano?
Con: Sanja Lucic, giornalista e scrittrice italo-serba; Giuseppe
Norbig, giornalista e scrittore; Francesco Bittasi, regista teatrale
e scrittore. E con: (le attrici) Laura Tombini, Marta Shafik, Chiara Verzola e (il cantautore) Andrea Labanca.
Francesco Bittasi, Al punto che disturbi - Edizioni
del Gattaccio _______________________________________________________ Chiudo questo spot-post con un breve estratto tratto dal mio libro:
Finalmente arriva il mio turno,
appoggio accuratamente gli acquisti sul ripiano scorrevole come se fossero
diamanti, sono sollevato al pensiero di colmare a breve la voragine nello
stomaco.
Purtroppo c’è qualcosa che non
funziona: una scia liquida ha bagnato parte della confezione di pasta e del
pesce. Ho le dita umide, il polsino della camicia è bagnato, i nervi girano a
mille fradici d’incazzatura.
La bottiglia perde acqua
oligominerale.
“Questa non ci voleva!” supplico
alla cassiera un appoggio morale, o preferibilmente un asciugamano.
“La vada a cambiare”.
Non ho mai digerito le persone
che semplificano nei momenti inopportuni, mi agitano maggiormente. Vorrei
vedere io, se fosse lei ad avere le mani bagnate, una fame da lupo e la cucina
a cento metri di distanza.
“Non ci avevo pensato, sa!”
“Male” replica.
Ancor meno sopporto le persone
che non colgono il sarcasmo.
Impugno la bottiglia e la
scoperta è agghiacciante: l'acqua fuoriesce da un impercettibile foro situato
vicino al tappo. Inizia a salire l’ansia.
Perché a me? E sì che sono stato
battezzato!
La situazione è chiara, pur non
lavorando nei R.I.S. è facile capire che potevo diventare un’altra vittima del
folle criminale Acquabomber.
“È meglio se la dà a me signore”,
starnazza la cassiera.
“Guardi che forse sarebbe il caso
di portarla alla polizia”.
“Ci vuole denunciare perché si è
bagnato i calzoni?”
“Intendo dire… probabilmente è
stata bucata apposta con una siringa da qualche psicopatico. Non mi stupirebbe
trovarci dentro tracce di ammoniaca o varechina”.
“Ma va là, non sia apprensivo”.
“Qui non si tratta di essere come
dice lei, però ci vuole attenzione e prevenzione in queste cose”.
“Scommetto che lei è uno di
quelli che ha smesso di mangiare il pollo per il virus dell'influenza aviaria?”
a stento trattiene le risa.
“Il pollo lo mangio ogni giorno”,
cioè, non proprio ogni giorno, ok, è da qualche anno che non lo compro, non
vorrei… sapete… posso vivere bene anche senza… perché rischiare?!
“Se le interessa, c’è lo sconto
sul pollame”.
Questa cassiera è pazza, a
guardarla attentamente assomiglia alla signora della strage di Erba. Mio dio, è
lei!
“Ascolti, un conto è essere
apprensivo, un altro è quello di essere incosciente”.
“Certo”.
“Non mi assecondi per cortesia”
preciso.
“Va bene”.
Ho le mani che puzzano di
ammoniaca, oppure è un altro veleno, magari solo acqua, non riesco a capire;
dovrei fissare una visita dal dermatologo.
Sono spaventato, lo sguardo
docile della cassiera è inquietante, sorride o ghigna maleficamente? Da un
momento all’altro giungerà anche suo marito. Tremo come un’antilope zoppa
appena avvistata da un leopardo.
Nel frattempo alla cassa n°1
giunge un signore anziano, fresco e profumato di doccia sotto l'acqua di colonia.
“Questa volta mi tenga il posto.
Vado a prendere un’altra bottiglia e torno in un lampo” e le consegno l’ultima
creazione di Acquabomber.
“Non si preoccupi” risponde
operando al contrario.
Evidentemente le manca un filo
conduttore tra parole e azioni. Questo spiegherebbe cosa la spinge a far
passare il codice a barre di minestrine e adesivi per dentiera.
Lei non vaga, lei non vaga qui lei non vaga qui, lei non vaga qui. La direzione dello sguardo è così ingannevole, la defezione dell'anima è così nauseante e veloce, non metto in dubbio la nostra esistenza metto semplicemente in dubbio i nostri bisogni moderni.
Lei non vaga, lei non vaga qui Lei non vaga qui. Io camminerò, con le mani legate io camminerò, con la faccia insanguinata io camminerò, con la mia ombra pendente nel tuo giardino, giardino di pietra. Dopo che tutto è stato fatto e siamo ancora soli non mi farò acchiappare, allora me ne andrò, con le mani
legate. Io camminerò, con la faccia insanguinata io camminerò, con la mia ombra pendente nel tuo giardino, giardino di pietra. Io non metto in mostra, io non condivido non ho bisogno, sai, di ciò che hai da dare. Io camminerò, con le mani legate
io camminerò, con la faccia insanguinata
io camminerò, con la mia ombra pendente, Nel tuo giardino, giardino...
Io camminerò, con le mani legate,
io camminerò nel tuo giardino, giardino di pietra.
Io non so, non m'importa, non ho bisogno che tu viva per me. Gruppo musicale: Pearl Jam (dalla rubrica: Citarsi è un po' deprimersi)
Scendo a Covent Garden. Qualche passo dilatato prima di estrarre dalla Freshjive da viaggio l'ultimo Manga-Hero italiano non ancora letto. La numero 8 dei Massive Attack continua nel suo repeat e va annullandosi in un silenzio apatico, tanto il mio cervello ne è saturo. Poca pioggia autunnale. Seguo le mie gambe riflesse nelle vetrine. Quanta morbosità c'è in me.
* * *
Ascoltami. Sono sola e in lacrime dentro una chiesa vuota. L'incenso acre soffia sui ceri accesi. Torta di compleanno piena di terrore. Qualcuno intoni un Happy Birthday denso di riverberi.
* * *
Ascoltami. Guardami. Toccami. Mangiami. In silenzio tra le urla.
Ehi, non nel senso che domani non ti trovano più i tuoi genitori, i
parenti si allarmano, gli amici piangono e i conoscenti si disperano. E poi
interviene la polizia e il telegiornale parlerà di te e si penserà a un
rapimento di qualche banda di malviventi professionisti o a qualche banda
improvvisata e quindi più pericolosa. Oppure a un rapimento degli alieni.
Magari il tuo vicino di casa avanzerà l’ipotesi di un tuo volontario
allontanamento perché qualche giorno fa gli hai detto in ascensore che ti
sentivi un pochino depressa. No no, non
mi auguro niente di tutto questo, giurin giuretta. Però: sparisci. Sul serio.
Niente scherzi. Perché non lo fai?! No perché poi diventa ossessione, e mica mi
piace. Che poi uno sembra non uscirne più e affiorano tutte quelle paturnie che
ti fanno dire a notte inoltrata “Un altro giro, offro io”. Intendo che un bel
giorno... Puf! E non ci sei più. Ti levi di mezzo dai miei pensieri, e non ci
riappari nemmeno per errore, neanche per caso, neppure per fatalità. No.
Proprio no. Ti alzi (se sei seduta) e te ne vai senza troppi se e ma. Perché
qui non posso passare il tempo a contare i tuoi passi e gesti e mezze frasi, e
che forse quella volta pensavi che, e probabilmente quello sguardo sotto sotto
nascondeva che. No. Enne. O. Chiaro? Capisci? Intendi? E poi, chiariamoci, non
vale fare comparsate mentre sogno, smettiamola subito. Regola n° 2: è
severamente vietato apparire nei sogni dell’altro. Sia nei sogni che finiscono bene
e quindi poi uno si sveglia già afflitto; sia i sogni che finiscono male e
quindi poi uno si sveglia già addolorato. Per non parlare dei sogni che non
finiscono e quindi uno si sveglia già echecazzo. No. Enne. O. Comprendi?
Afferri? Recepisci? Ma tu no. Ti ostini a lasciare l’impronta, la traccia, la
scia; perfino a tua insaputa. Facciamo che da oggi (vale anche domani, poi
basta però) è come se non ci fossi più nei miei giorni. Come se vivessimo su
due universi paralleli. Ecco. Ci provo. Questa volta vale per tutte. E’
l’ultima dell’ultimissima. Sparisci. Sparisci. Sparisci. Chiudo gli occhi.
Incrocio le dita. Dai che forse stavolta… La vita ti sorride, ma alle spalle
Progetto teatrale a cura di: Francesco Bittasi, Armando Meroni e Salvatore Zeno
Scritto da: Francesco Bittasi, Armando Meroni, Salvatore Zeno e Alessandra Lanza.
Con: Claudia Cataldo, Adriano Cavicchia, Martina Gentilino, Alessandra Lanza, Francesco Lombardo, Nicoletta Marrini, Jacopo Odoni, Laura Tombini e Irene Venditti.
Qui potete gustarvi il trailer: http://vimeo.com/109379623 video a cura di: Marco Scotuzzi
Nei posti come quello dove stavamo noi - lo chiamano Slotter Vaart - non succede mai niente: calcestruzzo e cemento dappertutto; un bar, un supermercato, un ristorante cinese. Potevamo trovarci in qualsiasi parte del mondo. E' il centro della città che ti dà il senso di dove sei. Lì dove stavo, non c'era differenza rispetto a Wester Hailes o Kingsmead, i posti da dove, venendo qui, ero voluto scappare. Solo che non ero scappato per niente. Un bidone dei rifiuti per i poveri sarà sempre uguale dappertutto, a prescindere dalla città che lo fornisce.
* * *
In Chrissie vidi una persona che si era trovata in guerra con se stessa e con il mondo e aveva cercato una vita migliore scopando e drogandosi senza capire che così scendeva solo a compromessi con i suoi problemi.
Mi affaccio frettoloso sul balcone, l'incoscienza post-adolescenziale che ci investe con il sopraggiungere (nostro malgrado) della maggiore età è un mix di adrenalina e spettacolo, forse è proprio la paura di un approccio con un mondo nuovo e definitivo che ci catapulta indietro verso terre amate di cui ci sentiamo padroni, dove non esiste esperienza, non c'è niente da proteggere o da progettare, vale solo il divertimento giocato al limite delle proprie possibilità.
Essere ragazzi è un po' come essere dei supereroi, senza però le enormi responsabilità, l'ammirazione delle masse e i favori delle pupe.
'Di tutte le fate' (Alberto Gavellotti) (Dalla rubrica: Il giusto degli altri)
Sai che mi piace un sacco quando mi
accomodo qui, tra queste righe. Talvolta è come sdraiarmi al parco, e mi sembra di essere lontano da tutti, pur continuando a sentire la metropolitana che mi
passa sotto, e il tram che mi passa affianco.
Comunque qui è un buon posto per me, è
quieto, un po' stretto, ma tutto sommato va bene così.
Mi piace quando anticipi che farai male,
perché alla fine non sono mai pronto, e ogni volta è come cadere dalla sedia. E quando ho il culo a terra, capisco che non abito dove vivi tu. Sai che mi piace da impazzire quando mi rilasso qui, tra queste foto, a volte è come se non ci fossimo mai persi di vista, e mi sembra di esserti vicino; pur continuando a vivere dall'altra parte della città, a sentire le telefonate della mia vicina di casa, e le urla del custode contro qualche tizio che distribuisce volantini. Comunque qui è un ottimo luogo per me, è tranquillo, un po' troppo grande, ma tutto sommato me la faccio andare bene così. E tu? Non passa mai alla radio quella che era la nostra canzone? A me capita sovente. A volte penso addirittura che la sento solo io, e per 4:32 minuti le frequenze di VirginRadio arrivano nel mio soggiorno dritte e diverse dagli altri. Mi costringono a pensare a quando prendevamo il treno all'ultimo minuto di sabato, e quando si tornava la domenica pomeriggio; come gli adolescenti. Mia cara, ho così tante cose da dirti che un abbraccio non le racconta tutte.
La pioggia trasforma piazze e strade in caverne allagate e scroscianti che comunicano attraverso le gallerie secche della metropolitana. Matteo sbuca dal sottosuolo tiepido dell'acquario freddo del corso e impiega un quarto d'ora a trovare Sonia in mezzo alla gente. Gli striscioni ciondolano fradici sfiorando il selciato. Percussionisti ostinati tormentano le pelli dei tamburi al riparo di cerate trasparenti. Sonia cammina sotto un ombrellino bordeaux e nero con disegni e manico rococò. Matteo la avvista, incongrua e perfetta, e la raggiunge con calma, per guardarla senza che lei se ne accorga.
A metà corteo sono zuppi, la stoffa dell'ombrello non fa altro che polverizzare la pioggia in goccioline che penetrano ovunque. La folla rallenta, poi si arresta del tutto. Ci si alza sulle punte, s'allungano i colli per vedere cosa succede più avanti. Arriva qualche slogan rauco reso incomprensibile dal diluvio. Un anziano col berretto da ciclista riferisce a Matteo e Sonia che più avanti si fronteggiano le forze dell'ordine e un gruppo di manifestanti che lui definisce 'autonomi', ma "adesso li convinciamo a lasciar perdere".
Dovresti magicamente comparire qui, di fianco a me, accanto
a quel calorifero (sì, ricordo perfettamente che in inverno spiaccicavi il tuo
culo sul quell'angolo di casa per trovare calore).
E per una volta te ne stai zitto, e mi ascolti.
Solo che - non so perché - dovresti materializzarti qui
adesso. Perché poi non va bene, non funziona; è fuori contesto.
Per cui adesso ripeto il tuo nome e tu fai puf, e compari
stupendo come solo tu puoi essere.
È che sono fatta male: quando penso di
esprimere una carineria, parto da lontano, molto lontano. E intorno comincio a
seminare frasi, poi le coltivo e poi quando ho la parola giusta da dire… si è
fatto tardi. E probabilmente tu hai già detto – senza volerlo – una frase che a
me ha dato fastidio. E allora poi mi fisso su quella sillaba, e non vedo più il
seme, l’orto e il giardino delizioso che avevo in serbo per te.
È che sono fatta male. Ma vorrei essere
fatta meglio. Però do il meglio di me quando sto così male.
E allora adesso tu vieni qui. Vai vicino
a quel vecchio calorifero, e ti becchi tutto quello che ho da dirti.
Però se non vieni, se non sbuchi magicamente, tutto
verrà vanificato; e io domani rimetterò i miei panni di sempre, e tutto sarà
come se mai avessi pensato di volerti nella mia stanza, appoggiato a quell'arrugginito calorifero.
E poi sono un po’ sbronza, colpa del
secondo giro, oppure del chupito finale; me lo offre sempre il proprietario del locale.
Io dico di no, lui insiste. Io dico no grazie, lui persiste. Io dico no dai
grazie, e lui intanto versa il rum nel bicchierino. Resisto qualche altro secondo e
poi butto giù. Lo faccio solo perché nella mia testolina bacata penso che lo
offenderei, e io non voglio. Solo che non mi piace il rum, mi fa schifo così
liscio e poi… ops, sto divagando!
Stavo dicendo: muoviti ad arrivare qui!
Altrimenti questo momento passa, e – lo sa solo Dio – proprio in questo momento
ho trovato le parole giuste da dirti, le ho qui con me, proprio adesso e non
posso perderle solamente perché tu non senti che ti sto chiamando con la mente,
e con il cuore. Cristo Santo. Non lo senti il battere del mio cuore. Non lo senti
scandire il tuo nome. Quanto fottutamente sordo sei?! Sei scemo. E sordo. E
scemo. Cazzovaffanculo.
Tre. Due. Uno. Mezzo. Un quarto. ......... Mi senti? .........!
Uffa. Merda.
È che domani mi sarò dimenticata queste
quattro parole che ho in gola da dirti, da confessarti. Tra un’ora sarà tutto svanito. E tu brutto scemo, non lo saprai mai.
E allora ho pensato di scriverti.
Chissà mai che un giorno capisci quanto
sono tua, nonostante le apparenze.
E ti aspetto, anche se come mago sei una
schiappa. Anche se come illusionista sei una frana. Come cavaliere non ne parliamo nemmeno. E poi non dimenticare che
sei sordo, ah sì, questo te l’ho già detto.
Adesso scrivo queste quattro parole.
……
…………….
……
……e.
Pensavi fosse così semplice, eh?! Scemo.
Riempile, se combaciano sarò tua, per sempre.