Il mattino dopo mi sono alzato in uno stato incredibile di elettricità, dopo una notte passata a girarmi e rigirarmi nel letto con la testa piena di immagini di Misia che mi arrivavano a scatti: lei a dieci metri dai suoi amici nella cantina, lei a pochi centimetri nella mia macchina, lei che scompariva dentro il suo portone, lei che parlava, lei che sorrideva.
Mi sono lavato la faccia con acqua fredda, rasato molto prima del solito, vestito con tutta l'attenzione che mi veniva, eppure non riuscivo a smettere di pensare a lei.
Era una specie di interferenza sistematica: il suo modo di girare la testa inclinandola un poco, la piega delle sue labbra mentre parlava, i suoi occhi chiari visti da vicino; il suono della sua voce, la naturalezza lunare nel suo modo di fare, l'aura della sua persona, la tensione intelligente e ostinata del suo profilo.
Mi sentivo come uno che si vede trasformare il paesaggio intorno da un secondo all'altro: nuove specie di animali e fiori e piante ovunque giri lo sguardo, nuovi profumi nell'aria, nuovi venti e nuove temperature, possibilità inesplorate ai suoi movimenti.
Ma ci ho messo due ore prima di telefonarle, perché avevo paura che fosse troppo presto e non volevo sembrarle incalzante o importuno: andavo fino al telefono e mettevo la mano sulla cornetta, pensavo a una frase da dirle e subito mi sembrava inutile, finta, infantile, non-spiritosa.
Non ha risposto la voce di Misia: una voce di uomo ha detto "Sì?".
Ma prima di realizzarlo io avevo già detto "CiaosonoLiviotiricordiierisera?", una frase così preparata e ripreparata e compressa da venire fuori in un istante per conto suo, nel modo meno distinguibile al mondo.
tratto da: Di noi tre (A. De Carlo)
(dalla rubrica: Il giusto degli altri)
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