“Che cosa ci fai lì?”
“Ma che cazzo ci facevi lì in mezzo?”
“Cosa c’entravi, tu, lì dentro?”
“Cosa ci stavi a fare in quella situazione?”
Queste sono state le domande che mi sono state rivolte, quando
ero io nella tua condizione, quando era successo a me. Quando mi era finita la
storia d’amore.
Non l’unica. Certo, una importante, non la storia, la
persona era importante.
Che poi – quando tutto finisce - ti ritrovi a suddividere
fidanzata e storia, erroneamente, come se fossero parti slegate dallo stesso
corpo. Poi non è proprio così. Forse un pochino. Forse no. Mah!
Per cui ci sono storie corte che sono importanti, e storie
lunghe meno importanti. Alla fine, cosa importa?! Non c’entra nemmeno quanto è
durata, non è questa la direzione.
Comunque, a quel giro, per me erano importanti entrambe,
relazione e fidanzata. Che strage. Quindi, una volta conclusa, cara amica mia,
puoi immaginare:
l’incredulità, la tristezza, lo sgomento, la rabbia, la
vendetta, la calma apparente, il nervosismo, il disagio, il pianto, la
depressione, la disfatta, il menefreghismo, l’attivismo, la deriva, la
scoperta, la riscoperta (di sé), la caduta, la ricaduta, i primi passi, la
prima camminata senza cadere, la prima camminata senza inciampare, il primo
sorriso (vero), la prima risata, il primo respiro, il primo senso di
equilibrio. E poi un’altra storia e così via. Che poi l’altra storia non
significa per forza in rapporto con qualcuno.
Eppure, sempre la stessa domanda mi tornava in mente: “Cosa
ci facevi lì in mezzo?”. E continuavo a contorcermi e arrovellarmi cercando a
tutti i costi una risposta esaustiva, credibile, concreta (intanto tralascio di
scrivere su questo post cento righe su cosa sia concreto o meno; ovvio che non
sono in grado di saperlo) almeno per me.
E poi, un giorno, così dal nulla, inaspettatamente, ho
compreso che non era una domanda, per cui non c’era nessuna risposta da dare.
Era un’affermazione. “Cosa ci facevi lì in mezzo!” e ci
aggiungerei anche un “Cazzo! Merda!”.
Certo che poi bisogna provare con forza a spostare (non
cancellare) a lato quel primo incontro, e soprattutto l’ultimo incontro-scontro.
Quella cena in quel posticino solo vostro. Quella fermata del tram. Quell’autobus
che non passava mai. L’odore di quella macchina. Quel gesto dolcissimo. Quella
frase mai detta prima. Quel sentimento mai provato in quel modo. Quel sesso
così perfetto. Quel film solo vostro, quella band che conoscete solo voi,
quella canzone scritta per voi, quel posto che “Quando ci siamo conosciuti…”,
quello sguardo che.
Già, fotte tutto ciò. Fotte proprio perché termina (quando
termina), e fotte sapere che non c’è un doppione, un bis, una replica anche con
qualche errore di battuta o di scenografia. Nessun lieto fine. No. Non c’è e non
ci sarà. Sarà tutto diverso, e bisognerà digerire il boccone. A volte da soli,
a volte qualcun altro aiuta a digerirlo più rapidamente. Ma non si può sapere,
non lo sai tu, non lo sa la tua amica del cuore, non lo sa il tuo amico di
sempre, non lo sa nessuno; nemmeno il collega saccente. Lo sanno solamente i
giorni che verranno; ed è a loro che ti devi rivolgere. Perché la terra sotto i
piedi a volte manca, (ma manca per davvero, mica solo poeticamente parlando; no
no, manca, cazzo se manca realmente!) e tra un burrone e l’altro è
difficilissimo trovare la stabilità, quasi impossibile. Probabilmente questo è
parte del cambiamento, che quando lo decidono gli altri per te è devastante.
Non resta altro che rimanere a galla, qui mica si richiede chissà quale
giravolta. A galla, in cerca di calma, quiete, a volta anche un sorriso se non
si pretende troppo, insomma, a galla nel bel mezzo del cambiamento. Che paura.
Che storia anche! Che sballo a volte!
E cos’è il cambiamento se non quella cosa in cui non trovi
le parole per descriverlo.
E dato che non ci sono parole. Chiudo adesso. Qui. Ora.
Un abbraccio.
“Hey tu, davvero, cosa ci facevi lì in mezzo?”
C'è un discreto tormento nel ritrovarsi nel punto sbagliato, nel momento sbagliato, che poi forse sono quelli giusti.
RispondiEliminaIl non detto scava solchi profondissimi ...
Ben detto, Luca, ben detto.
Già. Bisognerebbe tentare di vedere i solchi come piccole buche e non come burroni. Io ovviamente non ci riesco, noto solo voragini o campi fioriti. Il non detto va riempito, in qualsiasi modo, anche con monologhi allo specchio. Anche con dialoghi a senso unico. Ecco. I dialoghi a senso unico sono la nuova forma di monologhi, sono una buona medicina, temporanea, ma indiscutibilmente buona. Poco importa chi sta di fronte. E' importante che ci sia. Come del resto, è vitale sentirsi sbagliati; per prendere coscienza di se stessi. E prendere coscienza di sé, è un po’ come gettarsi in un dirupo, senza mai toccare terra. Con affetto, Luca.
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