È così che ho sempre desiderato il nostro incontro:
tu che
mi chiedi scusa e che supplichi e implori e non te ne vai finché non dico:
“Okay,
possiamo riprovarci”.
E io che mi lascio invadere dal tuo rimpianto, fino a
sorridere, fino a dirti:
“Non aspettavo altro, stronza. Ti ho sempre amata”.
Il nostro incontro non è stato quando ci siamo incontrati,
ai tempi non sapevo e non potevo sapere che quello sarebbe poi diventato il
primo incontro, e che ci avremmo ricamato sopra ricordandolo a ogni
anniversario. Per me era un giorno come tanti, che poi è deviato, che poi è
diventato percorribile, che poi è diventato strada, giardino e casa.
* * *
È così che ho spesso sognato il nostro scontro: tu che
vaneggi qualcosa, biascicando sul futuro che non arriverà, sul presente che non
c’è, sul passato che è troppo passato. Io che peso ogni lettera, articolando
perfettamente ogni singola parola sul futuro che ha in serbo per noi solo il meglio, sul presente
che non pare orribile, sul passato che non è tutto da buttare.
Il nostro scontro è stato quando abbiamo smesso di
scontrarci, a oggi non so ancora bene quando abbiamo smesso di incontrarci, di
prendere strade diverse. Per me oggi è un giorno che vorrei assente, di quelli
che… Adesso chiudo gli occhi, li strizzo forte e poi li riapro lentamente. Magari
torna tutto come prima. E non devo cambiare casa, vederti spostare scatoloni e
abiti e libri e lasciare foto e bigliettini scritti a mano.
* * *
È così che ho sempre immaginato il nostro rincontro: tu che
colpisci, incurante di colpire. Io che mi accorgo della botta, e nascondo il
livido. E divento piccolo, piccolissimo, minuscolo, come un bambino che dopo
aver giocato in strada con i compagni di classe, nasconde alla mamma il
ginocchio sbucciato, un poco sanguinante.
Probabilmente sono rimasto ancora lì, e per un po’ ho finto di
essere uomo.
* * *
Forse tutto è una questione di quanto tempo uno ci mette a
trovare un cerotto, e passare oltre.
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